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LEGGE 117/88:
"RISARCIMENTO DEI DANNI CAGIONATI NELL'ESERCIZIO DELLE FUNZIONI GIUDIZIARIE"
"RESPONSABILITA' CIVILE DEI MAGISTRATI"


Ambito di applicazione

La scarsa attitudine delle norme sulla responsabilità civile del magistrato sia ad assicurare un adeguato ristoro patrimoniale al danneggiato, sia a indirizzare la condotta dei giudici in conformità ad accettabili parametri deontologici, è dimostrata dalla sentenza della Cassazione n. 11860 del 26 novembre 1997 , che ha concluso  in termini assai deludenti per il danneggiato una vicenda in cui si era visto riconoscere dalla Corte d'Appello di Genova il consistente risarcimento di un miliardo e mezzo con rivalutazione ed interessi dal 1985, per i danni conseguenti alla omessa manutenzione di una nave sottoposta a sequestro penale.
A fondamento di tale pronuncia  il giudice di merito aveva posto  la valutazione secondo cui le attività di carattere amministrativo poste in essere dal magistrato (nel caso di specie in riferimento al bene sequestrato) non ricadono nella specifica disciplina sulla responsabilità civile del giudice.
La Cassazione ha invece affermato sia pure in relazione gli  abrogati artt. 55 e 74 cod. proc. civ. (ma la decisione mi pare coinvolga anche la legge 117/1988)  che la disciplina in questione riguarda tutta indistintamente “l'attività giudiziaria" del magistrato (giudice o pubblico ministero) e non soltanto alle sue "attività giurisdizionali".  Quindi regolamenta non soltanto l'attività connessa all'esercizio di attribuzioni decisorie, ma qualunque attività svolta dal magistrato nel campo giudiziario, a prescindere dalla natura delle funzioni esercitate (giudicante, requirente, inquirente) o dell'attività concretamente svolta nell'esercizio di tali funzioni: ossia, tanto giurisdizionale di cognizione od esecutiva, quanto di volontaria giurisdizione, o, addirittura, amministrativa, quale - ad esempio - quella del giudice delegato alle procedure concorsuali relativa alla direzione ed al controllo dello sviluppo del procedimento, e, talora, anche alla loro gestione attiva.    
Conseguentemente   la materia della responsabilità del giudice per i danni cagionati dai suoi comportamenti nell'ambito della sua attività strumentale alla conservazione ed alla manutenzione di un bene sequestrato per il procedimento penale, rimane assoggettata alla disciplina di cui ai citati artt. 55 e 74 cod. proc. civ.  Ed il privato ha molte meno possibilità di conseguire un ristoro patrimoniale.


Responsabilità civile e magistrati del pubblico ministero

In base alla sentenza della Cassazione n. 5174/1997, l'applicabilità ai magistrati del pubblico ministero, nell'esercizio delle  loro  attribuzioni  penali, dell'art. 55 comma primo del cod. proc. civ. (abrogato  unitamente  ai  successivi  articoli 56 e 74 dello stesso codice, a seguito  di  referendum, con effetto dal centoventesimo giorno successivo alla  data  di pubblicazione del d.P.R. 9 dicembre 1987, n.497) non deriva da una inammissibile applicazione analogica del cit. art. 74, non consentita dal carattere eccezionale della norma, ma dalla stessa formulazione dell'art. 55, nel quale il riferimento al "giudice" come possibile soggetto di responsabilità civile  comprende  chiaramente  e  inequivocabilmente  non i soli magistrati  investiti  di funzioni giudicanti, ma tutti gli appartenenti all'ordine  giudiziario, come definito e descritto dall'art. 4 del R.D. 30 gennaio 1941, n.12. Al riguardo, secondo quanto precisato anche dalla Corte Costituzionale  con  la  sentenza  n. 2 del 1968, deve infatti tenersi presente, per un verso, che nell'ambito dei funzionari e dipendenti dello Stato cui fa riferimento l'art. 28 Cost. per fissare il principio della loro diretta responsabilità  (la  cui  disciplina, rimessa alla legge ordinaria, può assumere varietà  di contenuto in relazione alle diverse categorie e situazioni) sono compresi  i  magistrati,  e  per altro  verso  che  l'inapplicabilità della sopraindicata  normativa del codice di rito civile agli illeciti posti in essere  dai magistrati del pubblico ministero nell'esercizio delle attribuzioni penali  comporterebbe un'interpretazione  contrastante  con  la norma di cui all'art.  107, comma terzo, Cost., secondo la quale i magistrati si distinguono fra  loro solo per diversità di funzioni, e pertanto contraria al canone ermeneutico  che delle possibili interpretazioni di un enunciato normativo privilegia quella conforme ai parametri costituzionali.


Responsabilità civile e giudizio di ottemperanza

La attività del giudice (nel caso di specie amministrativo) nel giudizio di ottemperanza  ha  natura giurisdizionale, ai sensi dell'art. 2, comma secondo, della  legge  13 aprile 1988, n. 117 . E’ perciò da escludere che dia luogo a responsabilità  l'attività  di  interpretazione,   condotta dal giudice del giudizio di ottemperanza, della pronuncia oggetto  del  giudizio, mirante ad individuarne l'effettivo tenore e l'ambito oggettivo ai fini dell'esecuzione (Cass. 13  dicembre 2002, n. 17843.



Il giudice competente

La sentenza della Cassazione n. 8315 del 1° settembre 1997 afferma che nelle controversie ove si deduce che il magistrato deve rispondere direttamente ed in proprio di un illecito penale, la competenza per territorio deve essere individuata in base ai comuni criteri (forum commissi delicti  e forum creditoris) e non in base alle disposizioni specifiche contenute nella legge 117/1988. 


Il giudice competente:
"responsabilità civile e connessione di cause"

 Il padre naturale di un bambino dichiarato in stato di adottabilità dal Tribunale per i minori di Firenze cita in giudizio avanti al Tribunale di Bologna, competente in base all'art. 4 della legge 117/1988 per le controversie di responsabilità civile promosse contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri per fatti addebitabili a giudici toscani, la Presidenza stessa, i giudici del Tribunale per i minori, la coppia di coniugi cui il bambino era stato affidato, l'ufficiale di stato civile che aveva provveduto alle necessarie annotazioni.
Il Tribunale di Bologna separa le cause, dichiara inammissibile la causa contro lo Stato per tardività, quindi dichiara la propria incompetenza per territorio per le altre controversie, indicando la competenza  del Tribunale di Firenze (luogo di residenza dei giudici), il Tribunale di Arezzo (luogo di residenza degli adottanti), il Tribunale di Pisa, luogo di residenza dell'ufficiale di stato civile.
L'attore propone regolamento di competenza sostenendo che le cause erano cumulativamente di competenza del Tribunale di Bologna. Ma la Cassazione (Cassazione civile, Sez. I, n. 347, 14 gennaio 2000)  rigetta il ricorso in quanto la  proposizione  cumulativa  di cause contro più soggetti non è sufficiente a costituire un vincolo di connessione tra le stesse – né  rileva che vi  sia  una  mera connessione probatoria tra i comportamenti agli stessi attribuiti - a tal fine essendo invece necessario che le cause siano connesse per l'oggetto o per il titolo. Pertanto, in caso di azioni risarcitorie proposte  da  uno  stesso soggetto contro lo Stato ai sensi dell'art. 2 legge 13 aprile  1988  n. 117 e contro il magistrato ai sensi dall'art. 13 della stessa legge, poiché la prima è fondata sul comportamento doloso o gravemente colposo  posto  in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, e la  seconda  sulla  commissione, da parte del medesimo e nell'esercizio delle sue  funzioni,  di  un  fatto  costituente  reato. Le relative cause non sono connesse  e  il giudice, inderogabilmente competente per territorio, ai sensi dell'art. 4 della  suddetta legge, per la prima azione, può legittimamente separarla  dalla  seconda per deciderla e rimettere la decisione su quest'ultima al giudice competente per territorio, secondo le regole ordinarie.
È poi ovvio che il Tribunale di Bologna non fosse competente per i fatti addebitati ai genitori adottivi (accusati di sequestro di persona, abusi e minacce) e l'ufficiale di stato civile (accusato di abuso d'ufficio e falso).
Soggiunge però la Corte che l'obbligazione risarcitoria derivante da un fatto dannoso unico imputabile a più persone è solidale, non cumulativa, e perciò non sussiste litisconsorzio  necessario  passivo tra costoro. Pertanto l'eccezione di incompetenza  territoriale  formulata  da  magistrati convenuti per la responsabilità  civile, è inefficace nei confronti dei componenti del medesimo collegio  giudicante  non  costituitisi, con la conseguenza che il giudizio contro questi  ultimi  può proseguire dinanzi al giudice adito dall'attore (Bologna), mentre nei  confronti  degli eccipienti dinanzi al giudice dichiarato competente per territorio (Firenze).

 

I requisiti di ammissibilità dell'azione

In tema di responsabilità civile dei magistrati, costituisce condizione di ammissibilità dell'azione proposta ai sensi dell'articolo 4, n. 2 della legge n. 117 del 1988 l'esperimento di tutte le impugnazioni o comunque dei rimedi previsti dall'ordinamento; pertanto, la prima sezione civile della Cassazione (sentenza n. 11438,  12 ottobre 1999) nega l'ammissibilità dell'azione nel caso della parte civile di un processo penale per bancarotta che, nella vigenza dell'abrogato codice di procedura penale, abbia omesso di impugnare la sentenza assolutoria dì primo grado; infatti, ai sensi dell'articolo 195 cod. proc. pen. previgente, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 1970, la parte civile avrebbe potuto impugnare quella decisione con ricorso per Cassazione ai sensi dell'articolo 111, 2° comma, Cost. A tale conclusione non ostando il richiamo di cui all'articolo 4 cit. ai rimedi "ordinari", sfuggendo detto ricorso alla distinzione classica tra mezzi di impugnazione ordinari e straordinari, per essere ordinario nel collegamento con il giudicato, e straordinario nella sovrapposizione all'ordine delle impugnazioni prefigurato dal codice di procedura civile; né la necessità del ricorso può escludersi allorquando si lamentino errori di fatto, quali travisamento dei fatti e dolo del giudice; infatti, tali vizi si traducono in motivazione assente o meramente apparente, e sono pertanto deducibili in sede di ricorso straordinario.


Responsabilità civile del giudice e decorrenza del termine di decadenza
"provvedimenti sulla custodia cautelare"

L'art. 4 l. n. 117 del 1988 non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. nel momento in cui prevede che l'azione risarcitoria sia esperibile, per i provvedimenti per i quali siano previsti rimedi a carattere impugnatorio, dal momento in cui non sia più possibile la rimozione di tali provvedimenti, e, per quelli per i quali tali rimedi non siano previsti, dall'esaurimento del grado del procedimento nel cui ambito si è verificato il danno; giacché non è inibito al legislatore regolare in modo non rigidamente uniforme i modi della tutela giurisdizionale e pertanto ricorrere a una disciplina differenziata in relazione a situazioni processuali oggettivamente diverse; in entrambi i casi, anche in relazione alla congruità del termine decadenziale correlato al momento di esperibilità dell'azione, gli interessati possono disporre di elementi sufficienti per valutare l'operato dei magistrati e quindi per attivare, nei termini legali, l'eventuale azione risarcitoria, così facendo valere il proprio diritto alla tutela giurisdizionale (Cass.  n. 13496,  3 dicembre 1999).
Quando il fatto generatore del preteso danno ingiusto è costituito da un provvedimento cautelare, a norma dell'art. 4 l. n. 117 del 1988 l'azione risarcitoria è proponibile quando siano stati esperiti, ove previsti, tutti i rimedi processuali astrattamente idonei a provocarne la revoca o la modifica, ovvero quando la sua rimozione o modificazione non sia più, in ogni caso, giuridicamente possibile; pertanto da tale momento decorre il termine biennale di decadenza dal diritto a proporre l'azione risarcitoria, senza che, perciò, possa sospettarsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 citato (per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.) nella parte in cui non prevede che il suddetto termine decadenza resti "sospeso" per tutto il tempo in cui la titolarità del processo sia attribuita agli stessi magistrati che, nel suo ambito, hanno chiesto e disposto la misura cautelare; infatti, anche ove fosse ipotizzabile una durata della fase delle indagini preliminari che superi il biennio dalla emissione della misura cautelare, nessuna norma impedirebbe al presunto danneggiato di esperire l'azione risarcitoria nel termine prescritto e l'eventuale timore di parzialità o persecutorietà da parte del magistrato indicato dall'imputato (e magari ritenuto dal giudice civile) responsabile del preteso danno ingiusto troverebbe adeguato rimedio negli istituti dell'astensione e della revocazione (Cass.  n. 13496,  3 dicembre 1999).
Degna di essere riportata appare anche la vicenda del  sig. Vincenzo Vitale,che cita in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri  denunciando presunti illeciti commessi a suoi danni da un  Giudice istruttore del Tribunale di Potenza che aveva, tra l'altro, emesso contro di lui un mandato di cattura, annullato dopo tre mesi di detenzione dalla Cassazione.
Il Tribunale e la Corte d'Appello dichiarano però inammissibile, ai sensi dell'art. 5 della legge 117/1988  la domanda di risarcimento danni  conseguenti all'emissione del mandato di cattura perché l'azione è stata promossa tardivamente, cioè dopo la scadenza del termine biennale previsto dall'art. 4, 2° comma, della legge.  La Cassazione  con sentenza n. 2186 dell' 11 marzo 1997 conferma la decisione dei giudici di merito respingendo la tesi dell'attore secondo cui tale termine biennale decorrerebbe dalla data di "esaurimento del grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno"; ed affermando che, nel caso di specie,  il termine decorre  dal momento in cui sono stati esperiti i mezzi di impugnazione contro il mandato di cattura cioè dalla pronuncia di annullamento della Cassazione.

NOTA: La Cassazione respinge poi  anche la tesi subordinata del ricorrente, che sottolineava di  aver avuto piena conoscenza della condotta colpevole del magistrato solo con il deposito  degli atti di causa a conclusione della istruttoria formale; e quindi invocava il principio secondo cui "il termine non decorre nei confronti della parte che a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto" (art. 4, 5° comma).
Per giungere a simile conclusione la Cassazione afferma che la previsione secondo la quale costituisce "colpa grave" del magistrato la emissione di provvedimento concernente la libertà della persona "fuori dei casi consentiti dalla legge"  (art. 2, terzo comma, lettera d  della legge 13 aprile 1988 n. 117)  va intesa nel senso di emissione di provvedimento non basato sui presupposti fissati in via astratta dal legislatore per l'emissione di un provvedimento di quel tipo: non costituisce pertanto elemento dell'accertamento della ricorrenza della "colpa grave" - una volta rilevato che i presupposti sui quali è stato basato il provvedimento corrispondano a quelli astrattamente prefissati per l'emanazione di un provvedimento di quel tipo - la valutazione che i presupposti stessi trovino, altresì fondamento negli atti processuali.
Dunque, secondo la Cassazione, l'attore non aveva alcun bisogno di conoscere gli atti del processo per valutare la possibilità di promuovere azione civile. Il che sembra francamente eccessivo; ritengo infatti che  la responsabilità del magistrato per illegittima emissione di provvedimenti restrittivi della libertà personale non sia limitata alle ipotesi previste dalla citata lettera d), ma sussista anche nelle fattispecie enunciate  nelle lettere a), b), c) del medesimo art. 2, che prevedono  errori di fatto o di diritto cagionati da negligenza inescusabile.
D'altronde la lettera d) mira ad assicurare alla libertà delle persone una tutela maggiore e privilegiata. Invece, secondo la tesi accolta dalla Cassazione, andrebbe esente da responsabilità il giudice che disponesse la custodia in carcere di un imputato di violenza carnale presunta ai danni di minorenne, ignorando per inescusabile negligenza che agli atti vi è il certificato di nascita da cui risulta che la donna è, invece, maggiorenne; mentre andrebbe incontro a responsabilità civile se, in luogo della custodia in carcere di una persona, avesse disposto il sequestro di beni, o il blocco di una attività.




Responsabilità civile del giudiche e decorrenza del termine di decadenza

A) richiesta di provvedimenti sulla custodia cautelare da parte del pm
B)
l'archiviazione parziale della denuncia

Il rag. Generoso Buonanno ritenendo di essere stato vittima di ingiusti provvedimenti relativi alla sua custodia in carcere, disposti dal GIP di Milano e confermati dal Tribunale della Libertà, dopo aver ottenuto dal GIP del Tribunale  di Mantova (risultato in seguito competente per territorio) l'archiviazione del procedimento, conviene in giudizio il Presidente del Consiglio, chiedendo il risarcimento del danno cagionatogli, fra gli altri, dai pubblici ministeri Gherardo Colombo e Pier Camillo Davigo. Di fronte alla eccezione di decadenza dell'azione per decorso del termine biennale di cui all'art. 4 della legge 117/1988, il rag. Buonanno sostiene che gli atti del pm non sono impugnabili e quindi il termine stesso decorre dalla data di conclusione del processo di primo grado. I giudici di merito e la Corte di legittimità (Cass.  n. 13496,  3 dicembre 1999) affermano, invece, che, ai fini della decorrenza del termine decadenziale per l'azione di risarcimento di cui all'art. 4 l. n. 117 del 1988, gli atti del pm preordinati alla emissione di un provvedimento cautelare, come quelli diretti ad evitarne la revoca o la modifica, devono ritenersi impugnabili, sia pure non autonomamente, bensì nei modi e nei termini in cui è impugnabile il provvedimento giurisdizionale cui ineriscono; ne consegue che, in relazione ad una richiesta di misura cautelare da parte del pm, i due anni per la proposizione dell'azione di responsabilità devono ritenersi decorrenti non dall'esaurimento del grado del procedimento nell'ambito del quale si sia verificato il danno (come prescritto per gli atti per i quali non siano previste impugnazioni), ma dal momento (ovviamente precedente) in cui non sia più passibile di revoca o di modifica (perché definitivamente caducata o per avere esaurito i suoi effetti) l'ordinanza del gip che dispose la misura cautelare, giacché la richiesta del pm non è ex se impugnabile in quanto da sola non è idonea ad incidere sulla libertà, laddove soltanto il provvedimento del giudice, che accolga tale richiesta, può limitarla, dando eventualmente luogo ad un danno ingiusto (e risarcibile), così che le impugnazioni dirette contro l'ordinanza del giudice investono inevitabilmente anche la richiesta del pm (quando il provvedimento sia ad essa conforme) perché il pm ha presentato gli elementi ritenuti necessari e di quegli elementi il giudice si è valso per emettere l'ordinanza.
In sostanza il termine per il promuovimento dell'azione risulta così trascorso non solo per quanto attiene al comportamento dei magistrati giudicanti, ma anche in relazione alla condotta dei pubblici ministeri. E la soluzione è certo logica: sarebbe in effetti strano che fosse scaduto il termine per chiedere la valutazione da parte del giudice civile del provvedimento di custodia cautelare ed invece fosse ancora possibile sottoporre al giudice civile il comportamento dei pm che tale custodia hanno richiesto.  
L'esaurimento  del  grado  del procedimento - cui fa riferimento la legge 117  -  va inteso nel senso di definizione dell'oggetto di quest'ultimo con  provvedimento  non più modificabile; il che si verifica non soltanto nel caso  di totale conclusione del procedimento, ma anche in quello di esaurimento  soltanto  parziale, limitatamente alla parte dell'oggetto che viene definita. Perciò costituisce esaurimento del grado  del  procedimento  penale l'ordinanza - o decreto - di archiviazione parziale,  poichè  tale  provvedimento  presenta, per la parte dell'oggetto del procedimento  penale che viene archiviata, caratteri di definitività e immodificabilità  pari al provvedimento di archiviazione che definisce totalmente  le indagini preliminari, potendo entrambi i provvedimenti essere superati  solo  mediante la riapertura delle indagini ai sensi dell'art. 414 cod. proc.  pen. (Cass.  29 aprile   2003, n. 6696).


Valutazione del fatto e responsabilità civile

 Il Tribunale  di Pinerolo dovendo, in  applicazione dell'art. 15 della Legge Fallimentare  e della sentenza della Corte Cost. n. 141 del 1970, procedere alla convocazione per l'audizione degli amministratori di una società in nome collettivo e dei soci illimitatamente responsabili afferma - con ampia argomentazione - sufficiente la convocazione di una  delle due socie (ed amministratrici) compiuta dai carabinieri a mezzo telefono, e che tale convocazione coinvolga una seconda  socia in quanto convivente con la prima. Sulla scorta di queste considerazioni dichiara il fallimento e respinge anche la istanza di revoca del fallimento stesso. Invece la Corte d'Appello di Torino con sentenza passata in giudicato revoca il fallimento affermando che la suddetta convocazione era  inadeguata.
Quindi la società ed i soci promuovono azione di responsabilità civile contro lo Stato  in base all'art. 2 comma 3 lettere a) a b) della legge 117/1988 (inescusabile violazione di legge e errore di fatto inescusabile).
Tribunale e Corte d'Appello di Milano ritengono inammissibile la domanda e la loro pronuncia trova il sostegno della Cassazione (Cass.   n. 12357,  6 novembre  1999).
Afferma la Corte Suprema che il sistema normativo della responsabilità civile dei magistrati, quale risultante dalla coordinazione fra le ipotesi di colpa grave tipizzate dall'art. 2 terzo comma della 1. n. 117 del 1988 e la previsione del secondo comma della stessa norma, secondo la quale nell'esercizio di funzioni giudiziarie non può dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove, non determina un rinvio alla nozione generale della colpa grave, come dispone l'art. 2236 cod. civ. a proposito della prestazione del libero professionista intellettuale implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ma assume carattere peculiare, sia per la presenza della clausola limitativa di cui al suddetto secondo comma dell'art. 2, che si spiega col carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria, connotata da scelte sovente basate su diversità di interpretazioni, sia per la previsione, con riferimento alle ipotesi di cui alle lettere a, b e c del suddetto terzo comma, dell'esigenza che la colpa grave sia inescusabile. 
Con riferimento a tali ipotesi, la qualificazione di inescusabilità della negligenza, in quanto aggiunta dalla norma a fini delimitativi della responsabilità, mediante un'esplicazione del concetto di gravità della colpa, integra un quid pluris rispetto alla negligenza, nel senso che essa si deve caratterizzare come "non spiegabile", cioè senza agganci con la particolarità della vicenda, idonei a rendere comprensibile - anche se non giustificato - l'errore del giudice. E soggiunge che la lettera b) del terzo comma dell'art. 2 della 1. 13 aprile 1988 n. 117 considera il caso in cui il giudice affermi un fatto incontrastabilmente escluso dagli atti del procedimento, e dunque attribuisce rilevanza, sempre che sia da ascrivere a negligenza inescusabile, all'errore di tipo "revocatorio", consistente nella supposizione di una circostanza fattuale la cui inesistenza sia chiaramente posta in luce dalle risultanze acquisite agli atti.  Ne consegue che non è riconducibile alla fattispecie prevista da detta norma il caso in cui il giudice ritenga il verificarsi di una situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti (tali reputati nei gradi di giudizio successivi), i quali, pur tuttavia, abbiano formato oggetto di esame e valutazione da parte sua. 

 

Infondatezza della domanda ed inamissibilità dell'azione

La Cassazione (si vedano da ultimo le sentenze   n. 9811 del  19 giugno   2003; 6697 e 6696 del  29 aprile   2003) ha affermato che la  manifesta  infondatezza dell'azione risarcitoria per  responsabilità  civile del magistrato determina inammissibilità della azione stesa rilevabile nella fase preliminare attinente appunto all'ammissibilità dell'azione regolata dall'art. 5 della legge 13  aprile  1988, n. 117. Tale manifesta infondatezza deve però emergere da    una valutazione sul  merito  della questione dedotta in giudizio , condotta esclusivamente "ex  actis"; senza necessità di ulteriori indagini o accertamenti istruttori. Mentre la cognizione del giudice della ammissibilità, ha carattere di cognizione piena e definitiva in ordine  alla  configurabilità dei fatti contestati, dei requisiti e delle condizioni  cui  la legge subordina detta responsabilità.
Sulla base di queste considerazioni è stato – ad esempio- concluso il processo civile di risarcimento del danno avente ad oggetto l’archiviazione, da parte dei giudici di Firenze, della denuncia presentata contro magistrati di Perugia, che avevano a loro volta archiviato la denuncia contro magistrati di Roma che avevano incriminato l’avv.to Wilfredo Vitalone.
La prima sezione civile della Corte  afferma, poi che, il provvedimento di archiviazione  di una denuncia penale, in tesi ascrivibile a dolo o colpa grave  del  magistrato  che  l'ha  adottato o ha contribuito ad adottarlo, può dare  ingresso  all'azione  risarcitoria  soltanto  se  ed in quanto sia foriero di  danno  patrimoniale, nell'ambito del quale non è riconducibile il venir meno  -  per effetto  ell'archiviazione - della possibilità di ottenere dal denunciato  il  ristoro del danno morale. Le connotazioni intrinseche di quest'ultimo,  infatti,  sono  in  radice  ostative ad una sua "conversione" in danno  patrimoniale,  sol  perchè  il relativo pregiudizio venga in discussione con un  soggetto  distinto dall'autore del reato, in quanto la lesione di un bene non  patrimoniale  rimane  tale  e non si "patrimonializza" in relazione alla circostanza  che  sia  addotta  contro persona diversa da chi in tesi l'abbia provocata.
La Corte inoltre constata che nel caso di specie non si verteva in un caso di (dedotto) errore giudiziario attinente alla “libertà personale” e perciò il danno risarcibile era esclusivamente quello di carattere patrimoniale; e ritiene che correttamente i giudici di merito abbiano ritenuto che esso fosse palesemente inesistente essendo apparsa del tutto priva di supporto la affermazione  secondo cui l’avv.to Vitalone avrebbe perso  clientela a seguito della avvenuta ripulsa delle sue tesi da parte dei giudici fiorentini. Mentre il danno non patrimoniale subito per ingiustificata detenzione poteva essere richiesto solo direttamente ai giudici romani che avevano emesso i provvedimenti da cui era derivata la compressione di tale libertà, e non ai giudici perugini che archiviando la denuncia contro i giudici romani avevano sottratto all’avv.to Vitalone la possibilità di ottenere il risarcimento in questione quale parte civile in un processo penale (quindi ancor meno ai magistrati di  Firenze intervenuti in “seconda ulteriore battuta”).

Alcuni casi  simili
"Caso Tortora"

Una conferma della inidoneità dello strumento della responsabilità civile ad incidere sulla realtà della vita giudiziaria scaturisce da un esame della non molta casistica.
Così, ad esempio, dalla sentenza della Cassazione n. 2201 del  12 marzo 1999 emerge che l'avvocato Piccolo, incarcerato sotto l'accusa di essere  il "consigliere-consigliori" di una cosca mafiosa, e successivamente prosciolto con formula ampia, chiede il risarcimento di un miliardo asserendo che il pm ed il gip che lo avevano privato della libertà personale, avevano agito con colpa grave, consistente nell'essersi affidati alla parola di un pentito, priva di supporti probatori.
Il Tribunale, la Corte d'Appello, e la Cassazione concordi rispondono che la causa è inammissibile perché non è sindacabile l'attività del giudice di valutazione della prova, né il fatto addebitato all'avvocato Piccolo era positivamente escluso dalle risultanze processuali, ma era solo sorretto da elementi probatori insufficienti a supportare una condanna.
A questa  vicenda, che ha coinvolto un avvocato, si può affiancare quella del  magistrato dott. Giuseppe Recupero.
La Corte di Cassazione (sentenza   n. 9811 del  19 giugno   2003)  ritiene sufficientemente motivato e perciò meritevole di conferma il decreto con cui la Corte d’Appello di Messina aveva ribadito la pronuncia con cui il Tribunale aveva dichiarato inammissibile l’azione civile proposta dal dott. Giuseppe Recupero. Il dott. Recupero lamentava di essere stato detenuto in carcere per quasi quattro mesi a seguito di ordinanza di custodia cautelare del GIP di Reggio Calabria con l’accusa di lesioni personali e corruzione; accusa da cui era stato successivamente prosciolto con formula ampia.
In particolare il dott. Recupero sottolineava che uno dei reati indicati nel provvedimento di custodia cautelare (le lesioni personali) non rientrava fra quelli che consentivano tale misura; ma il giudice della ammissibilità aveva replicato che non vi era ragione per ritenere che la custodia cautelare non sarebbe stata ugualmente disposta solo per i reati che consentivano tale misura e che nessun danno era venuto al dott. Recupero per la diffusione della notizia secondo cui era detenuto anche per il reato di lesioni personali.
Sorte analoga (sia pure per ragioni procedurali) subisce la vicenda del sig. Vittorio Barletta che  cita invano davanti al tribunale di Reggio Calabria la Presidenza del consiglio dei ministri chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivati dall’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal g.i.p. presso il tribunale di Catanzaro su richiesta del p.m. presso lo stesso tribunale, nell’ambito di indagini nelle quali era stato accusato dei reati previsti dagli articoli 81 e 319 c.p. e 74 d.p.r. n. 309 del 1990. L’ordinanza era stata annullata dopo qualche mese dal tribunale del riesame e con sentenza del g.i.p. in data 7 luglio 1994, divenuta irrevocabile il 28 settembre 1994,  l’imputato era stato prosciolto dalle imputazioni. Con provvedimento del 16 settembre 1996 era stato archiviato anche un procedimento nel quale il Barletta era stato accusato del reato di falso ideologico.
Si tratta di pronunce sicuramente conformi alla legge, ed alle esigenze di funzionalità del sistema.
Se si desse adito ad azioni di questo genere si realizzerebbero controversie civili ripetitive del processo penale, che potrebbero pervenire a risultanze con esse contrastanti.
Ben potrebbero darsi infatti, ad esempio, sentenze civili che riconoscessero la fondatezza della accusa respinta  dal giudice penale. In quanto il giudicato penale di proscioglimento dell'imputato non fa stato nel processo civile che vede convenuti - uti singuli - il pubblico ministero o il giudice penale.
Ma queste logiche considerazioni ribadiscono la inutilità della legge 117/1988, su cui sono state demagogicamente alimentate le speranze dell'opinione pubblica.



Responsabilità civile ed omesso esercizio del potere di impugnazione

In tema di responsabilità civile dei magistrati, non configura omissione di un atto dovuto l'omessa impugnazione di una sentenza penale di assoluzione da parte del procuratore generale e ciò neppure in caso di sollecitazione all'impugnazione nell'interesse delle parti private secondo la prassi invalsa sotto il codice di procedura penale previgente; infatti, l'interesse a proporre impugnazione da parte del pm si ispira alla corretta applicazione della legge ma deve concretarsi in una richiesta di riforma della sentenza e non può proporsi per correggere eventuali vizi di motivazione (Cass. 12 ottobre 1999, n. 11438).
Nella specie, in applicazione di tali principi, la Suprema Corte ha confermato il decreto che aveva dichiarato inammissibile l'azione di responsabilità, rilevando tra l'altro che il provvedimento del P.G. di non luogo a provvedere sull'istanza di impugnazione delle parti private era fondato su una valutazione delle prove insindacabile con l'azione di responsabilità civile. 


L'azione diretta di cui all'art. 13 della legge n. 117 del 1988

Le sentenze 6696 e  6697 del  29 aprile 2003,  11880 del 29 settembre 2001, 15710 del 13 dicembre 2000,  11044 del 4 novembre 1998  e n. 4386 del 3 maggio 1999   ribadiscono che la norma di cui all'art. 13 della legge n. 117 del 1988,  laddove consente l'azione diretta nei confronti sia del magistrato che dello Stato (quale responsabile civile) nella ipotesi di reati commessi dal magistrato nell'esercizio delle proprie funzioni, ponendosi su di un piano ontologicamente diverso rispetto alle ipotesi di responsabilità contemplate dal precedente art. 2 (e ss.) della legge citata, ha riguardo a fattispecie caratterizzate - rispetto all'ipotesi del dolo di cui al ricordato art. 2 - dall'ulteriore requisito della costituzione di parte civile nel processo penale eventualmente instauratosi, ovvero della eventuale sentenza di condanna del magistrato passata in giudicato.   
Conseguentemente, prospettatasi, in difetto di tali due presupposti, la eventualità che il danno ingiusto lamentato sia conseguenza  di reato, la relativa domanda non si sottrae al giudizio di ammissibilità previsto dall'art. 5 della legge citata. Invero, ove il preteso danneggiato possa liberamente agire in un giudizio civile prospettando, "sic et simpliciter", ipotesi di reato a carico del magistrato convenuto, risulterebbero completamente vanificati le limitazioni ed il "filtro" imposti dalla legge all'ammissibilità dell'azione predetta.
La sentenza n. 4386/1999 precisa poi che nel giudizio di responsabilità diretta dei magistrati instaurato in forza dell'art. 13 della legge 117/1988, lo Stato eventualmente evocato in giudizio in veste di responsabile civile è, in virtù della rappresentanza processuale conferita dall'ordinamento ai Ministeri (D.lgs. 1611/1933 e successive modifiche), rappresentato in giudizio dal Ministero di appartenenza del dipendente e, pertanto, da quello della Giustizia (e non anche dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri).   


L’introduzione del giudizio

Con la sentenza n. 16935 del  22 novembre   2002 la Corte afferma che la  domanda  di risarcimento ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117, sulla  responsabilità  civile dei magistrati, va proposta con ricorso, e non  con  citazione,  atteso  che,  dalle  caratteristiche della fase iniziale del  processo,  regolata dall'art. 5 legge cit. e relativa al giudizio di ammissibilità  della domanda, si desume che detta fase è improntata alla sommarietà  e  caratterizzata  dalle  forme del procedimento camerale, il che lascia  trasparire  all'evidenza  che intenzione del legislatore era quella di prevedere,  anche senza espressa indicazione, l'uso del ricorso, come è confermato,  altresì,  dal  principio  generale  contenuto nell'art. 737 cod. proc.  civ.,  che  espressamente  stabilisce  che i provvedimenti che debbono essere  pronunziati  in camera di consiglio (come quello che definisce il giudizio di  ammissibilità  ex  art. 5 cit.) si chiedono con ricorso al giudice competente, che pronunzia con decreto.  Per valutare se la domanda di risarcimento sia stata tempestivamente proposta si deve quindi far riferimento alla  data del deposito del ricorso e non a quella (ovviamente successiva) in cui alla controparte vengono notificati  il ricorso stesso ed il decreto con cui il giudice fissa la data di comparizione davanti a sé.
Ritiene quindi  tempestiva la domanda con cui il sig. Graziano De Biasi lamentava di esser stato rinviato a giudizio per presunti episodi di corruzione da cui era stato poi assolto dal giudice di merito. Ciò a seguito di indagini all’esito delle quali erano rimaste decapitate le correnti di maggioranza dei due partiti politici al potere nel Veneto: le correnti che facevano capo a Carlo Bernini per il partito della D.C. e a Gianni De Michelis per il partito del P.S.I.
La Corte soggiunge però  che in  tema  di responsabilità civile dei magistrati, l'inescusabile negligenza  prevista  dall'art.  2,  terzo  comma, lett. a), della legge 13 aprile 1988,  n.  117  si  concretizza non nell'errore in cui sia incorso il giudice  nel  valutare il materiale probatorio a sua disposizione, bensì soltanto nel  fatto  che  il giudice abbia posto a fondamento del suo giudizio elementi del  tutto  avulsi dal  contesto probatorio di riferimento, posto che il concetto  di  negligenza  inescusabile  postula  la  sussistenza  di  un  "quid pluris" rispetto alla colpa grave disciplinata dal codice civile.
Quindi rigetta il ricorso avverso il decreto con cui la Corte d’Appello di Trento aveva dichiarato inammissibile l’azione civile con cui il sig. De Blasi lamentava che il giudice delle indagini preliminari non avesse respinto la richiesta di rinvio a giudizio; nonostante (a dire del sig. Di Blasi) fosse agevole constatare che le accuse nei suoi confronti erano infondate posto “ che tutti gli affari intrapresi dal denunziante dipendevano da atti dell’Amministrazione comunale del Comune di Riese o dell’Amministrazione regionale ma non della Amministrazione provinciale, presso la quale il ricorrente operava”.


La pronuncia della Cassazione sull'ammissibilità dell'azione

In tema di responsabilità civile dei magistrati e con particolare riguardo alla fase di ammissibilità della domanda risarcitoria (che, ai sensi dell'art. 5 l. n. 117 del 1988, è deliberata in camera di consiglio sia in primo grado che in sede di reclamo), non si rinvengono, né nel citato art. 5, né nell'art. 375, 1º comma, c.p.c., argomenti testuali dai quali desumere che il rito camerale debba essere adottato anche per la trattazione e deliberazione del ricorso per cassazione avverso il decreto pronunciato dalla corte d'appello in sede di reclamo relativo alla ammissibilità della predetta domanda risarcitoria (Cass. 13 dicembre  1999, n. 13919; 13 dicembre 2000, n. 15710).
In tema di azione per la responsabilità civile del magistrato, il ricorso per cassazione proposto, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 117 del 1988, avverso il provvedimento con cui la corte d'appello dichiara inammissibile la domanda, deve essere depositato nei termini stabiliti dalla norma stessa, la cui inosservanza, secondo la regola generale di cui all'art. 369 c.p.c., determina l'improcedibilità del gravame (Cass. 17 gennaio  1997, n. 460).
La sentenza n. 4386 del 3 maggio 1999  aggiunge poi ancora che  il ricorso per Cassazione proposto, ai sensi dell'art. 5 legge n. 117 del 1988, avverso il decreto con cui la Corte d'Appello abbia dichiarato inammissibile la domanda va notificato nel termine di trenta giorni dalla notifica del provvedimento della Corte d'Appello effettuata a cura della cancelleria, a nulla rilevando, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, che il suddetto provvedimento sia già  stato notificato a cura della controparte, nel che la notifica a cura della cancelleria sia stata effettuata oltre il termine di dieci giorni previsto, dovendosi tale termine ritenere di natura ordinatoria. 
Ne consegue, da un canto, che la notifica, da parte della cancelleria, del solo dispositivo del decreto di inammissibilità non è idonea a far decorrere il termine per la proposizione del ricorso per cassazione (non essendo, in tal caso, assicurata all'interessato la piena conoscenza di tutti gli elementi utili per valutare l'opportunità di proporre impugnazione e per formulare specifici motivi di ricorso); dall'altro, che la mancata notificazione del decreto nella sua integrità non rende improponibile il ricorso per cassazione che sia stato, ciononostante, notificato, atteso che il termine stabilito dalla legge è pur sempre un termine finale, e che il ricorrente può, comunque, decidere di proporre il ricorso a seguito dell'acquisizione, di sua iniziativa, della piena conoscenza del decreto della corte di appello, ovvero sulla base di altri elementi.



Pronuncia di inammissibilità e ricorso per Cassazione

Secondo Cass. n. 17259 del  5 dicembre   2002, l'impugnazione per cassazione  del  provvedimento dichiarativo dell'inammissibilità dell'azione di  responsabilità,  reso  dalla corte d'appello in esito a reclamo, va qualificato  come  ricorso ordinario, e come tale va ammessa per tutti i motivi contemplati  dall'art.  360 cod. proc. civ., e non soltanto per la violazione di  legge  denunciabile  con  il ricorso straordinario ex art. 111 Cost.. Ciò in  quanto  l'impugnazione  in esame trova titolo nella legge ordinaria, e precisamente  nell'art.  5,  quarto comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117, con previsione priva di delimitazioni circa le censure formulabili, e quindi più  ampia  di quella adottata dalla norma costituzionale nel fissare un'inderogabile  regola "di chiusura" per il caso in cui non sia contemplato un più ampio  sindacato  di legittimità, ed in quanto la detta previsione dell'art. 5  della  legge  del  1988  basta  a  riportare  il  ricorso  stesso nell'ambito  dell'art.  360 cod. proc. civ., il quale, riferendosi alle "sentenze" in grado  d'appello  o in unico grado, abbraccia gli atti del giudice ordinario che  abbiano valenza decisoria e natura sostanziale di sentenza, indipendentemente dalla forma rivestita, che, nella specie, è quella del decreto, derivante dalla scelta del rito camerale.
In concreto, però la Cassazione conferma il decreto della Corte d’appello dichiarativa della inammissibilità della domanda di risarcimento del danno  promossa  a seguito di sentenza di una sezione penale  della Corte di Cassazione con cui la pronuncia di condanna del dott. Catalano per i reati di appropriazione indebita e di patrocinio infedele in pregiudizio veniva cassata solo in un capo (ed a seguito di intervenuta prescrizione).
Ciò in quanto l'art. 2 della legge 13  aprile  1988, n. 117, nel fissare - a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art.  5,  terzo  comma - i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato  per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio  delle sue funzioni, esclude possa dare luogo a responsabilità l'attività di  interpretazione  di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della  prova, comprendendo in detta colpa, fra l'altro, la grave violazione di legge  determinata da negligenza inescusabile, senza eccezioni per le norme processuali,  e dunque includendo quelle che fanno carico al giudice di esaminare  i temi in discussione influenti per la decisione, e di dare contezza delle  ragioni  della  decisione stessa. Ne deriva che il momento della funzione  giurisdizionale  riguardante l'individuazione del contenuto di una determinata  norma  e  l'accertamento del fatto, con i corollari dell'applicabilità o  meno  dell'una  all'altro,  non può essere fonte di responsabilità, nemmeno  sotto  il  profilo dell'opinabilità della soluzione adottata, dell'inadeguatezza  del sostegno argomentativo, dell'assenza di una esplicita e convincente  confutazione  di  opposte  tesi,  dovendo  passare  l'affermazione  della  responsabilità,  anche in tali casi, attraverso una non consentita revisione  di  un  giudizio interpretativo o valutativo; fonte di responsabilità, invece,  può  essere l'omissione di giudizio, sempre che investa questioni decisive,  anche in relazione alla fase in cui si trova il processo, e sia ascrivibile a negligenza inescusabile.
A sua volta, la sentenza .  n. 14193 del  3ottobre   2002 ritiene non  sindacabile con ricorso in  cassazione  l’affermazione del giudice di merito secondo cui  non risulterebbe “incontrastabilbilmente” dagli atti un  certo fatto. Nel caso di specie le parti civili che aveva ottenuto dal Pretore la condanna dell’imputato (per disturbo alla quiete delle persone) al risarcimento del danno “da liquidari in separata sede”, si erano viste annullare tale capo della sentenza di merito dalla Corte di Cassazione "poiché nel caso in esame non risulta[va] che il difensore di parte civile avesse presentato conclusioni scritte ne in qualche, modo quantificato i danni". Le (ex) parti civili avevano quindi promosso causa di responsabilità civile sostenendo che la Cassazione aveva fondato il suo giudizio sulla negazione un fatto che invece risultava incontrovertibile dalle carte processuali,  in quanto nel verbale di udienza avanti al pretore si affermava: "la difesa di p.c. [conclude] come da conclusioni scritte che deposita". I giudici di merito hanno però ritenuto che accanto  al suddetto verbale andassero presi in considerazione altri documenti (fra cui la sentenza stessa del Pretore) e che iin base a tale più ampia documentazione la pronuncia della Cassazione non fosse frutto di “incontrovertibile” errore. E la Cassazione civile conferma la pronuncia di merito (condannando i ricorrenti alle spese).

 

Pronuncia di inammissibilità e revocazione

Il dott. Di Blasi, magistrato militare a riposo, seccato per non aver ottenuto dal giudice amministrativo il riconoscimento della qualifica di perseguitato politico (negatagli dalla competente commissione amministrativa), cita in giudizio la Presidenza del Consiglio per ottenere il risarcimento dei danni per la sentenza del Consiglio di Stato da lui ritenuta frutto di "diniego di giustizia" in quanto non aveva esaminato una eccezione di illegittimità costituzionale. Il Tribunale di Perugia dichiara inammissibile la domanda, e la pronuncia viene confermata dal giudice di appello, che rigetta anche l'istanza di revocazione del decreto di secondo grado, proposta ex art. 395, n.5, c.p.c.
La Corte di Cassazione, adita dal dott. Di Blasi, con sentenza n. 10078 del  17 settembre  1999  dichiara ammissibile il ricorso. Secondo la Corte, il termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte d'Appello che decida sull'impugnazione per revocazione avverso il decreto con cui la stessa Corte d'Appello - provvedendo in sede di reclamo ai sensi dell'art. 5, comma quarto, della 1. n. 118 del 1997 - abbia dichiarato l'inammissibilità  dell'azione ex art. 2 stessa legge, è quello ordinario di sessanta giorni, di cui all' art. 325, secondo comma cod. proc. civ.. Infatti non si può estendere al suddetto ricorso il termine speciale di trenta giorni, previsto dal suddetto quarto comma dell'art. 5 per l'ordinario ricorso per cassazione proponibile direttamente contro lo stesso decreto.
La Cassazione ritiene poi - andando di contrario avviso rispetto alla Corte di Perugina -  che il decreto con cui la Corte d'Appello, ai sensi del quarto comma dell'art. 5 della 1. 13 aprile 1988 n. 117, pronunciando in sede di reclamo avverso il decreto di declaratoria della inammissibilità della domanda ex art. 2 della stessa legge, a sua volta conferma detta inammissibilità deve reputarsi suscettibile di impugnazione per revocazione. Non può, in contrario valere la circostanza che il suddetto provvedimento abbia la forma del decreto e non quella della sentenza. La Corte giunge a tale conclusione, sia sulla base di un'interpretazione sistematica desunta dalla norma dell'art. 656 cod. proc. civ., che ammette la revocazione contro il decreto ingiuntivo, nonché dalla dichiarata incostituzionalità dell'art. 395 prima parte n. 1 e n. 4 nella parte in cui non ammetteva la revocazione contro l'ordinanza di convalida di sfratto o licenza per finita locazione e per morosità, sia dal carattere decisorio del provvedimento, desumibile dalla sua soggezione al ricorso per cassazione e dall'attitudine a divenire inoppugnabile.
Soggiunge la Corte che, al fine della decorrenza del termine breve ex art. 325 cod. proc. civ. per la proposizione della revocazione avverso il decreto con cui la Corte d'Appello, provvedendo in sede di reclamo, ai sensi del quarto comma dell'art. 5 della 1. n. 117 del 1988, dichiara inammissibile la domanda di cui all'art. 2 della stessa legge, non è idonea la notificazione del decreto da parte della cancelleria, prevista dal secondo inciso dello stesso comma quarto dell'art. 5 come idonea a far decorrere il termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione avverso lo stesso decreto, ma è necessaria, secondo la regola ordinaria stabilita dall'art. 285 cod. proc. civ., una notificazione del decreto ad istanza di parte, a norma dell'art. 170, primo e terzo comma, cod. proc. civ.
Pur dissentendo sotto il profilo della ammissibilità della revocazione dalla opinione della Corte di merito, la Cassazione rigetta il ricorso, perché la Corte di Perugia aveva sorretto la sua decisione con una doppia motivazione. E le considerazioni di merito con cui è stato esclusa la fondatezza della istanza di revocazione reggono al vaglio della Cassazione.



La responsabilità civile per fatti anteriori alla legge 117/1988

 Un cenno merita la disciplina che è stata applicata in ordine  a fatti accaduti prima della entrata in vigore della legge 117/1998.
La   responsabilità  risarcitoria  dei  magistrati  per fatti  illeciti  commessi  prima  dell'entrata in vigore della legge 13 apri le  1988  n.  117  è regolata,  ai sensi della norma transitoria di cui all'art. 19 di tale  legge,  dalle  disposizioni,  sia  sostanziali  che processuali, dettate dai previgenti  art.  55  e 56 cod. proc. civ. (abrogati, a seguito di referendum popolare,  con  effetto  dal  centoventesimo  giorno  successivo alla data di pubblicazione  del  d.P.R. 9 dicembre 1987, n.497).
Ne consegue che la domanda di  risarcimento,  senza  l'autorizzazione del Ministro di Grazia e Giustizia  richiesta  dal  primo  comma  del  cit. art. 56, è improponibile, e che essa resta  tale  anche  se, al momento della pronunzia della sentenza, il menzionato  articolo  risulta  abrogato atteso che, salva diversa disciplina transitoria  (nella  specie assente) la validità degli atti processuali deve esser  verificata  solo in base alle norme vigenti nel momento in cui l'atto è venuto ad esistenza (Cass., Sez. III , n. 5174 del 10 giugno 1997).
La sentenza della Cassazione 11044/1998 ha poi stabilito che per effetto della pronuncia della Corte costituzionale del 22 ottobre 1990, n. 468 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale della norma di cui all'art. 19, secondo comma della legge n.117 del  1988, nella parte in cui non prevede che il tribunale competente verifichi la non manifesta infondatezza della domanda risarcitoria proposta nei confronti del giudice successivamente al 7 aprile 1988 per vicende anteriori al 16 aprile 1988) il tribunale adito in sede civile dal presunto danneggiato ha l'obbligo della delibazione preliminare di ammissibilità dell'azione limitatamente alla ipotesi in cui questa sia diretta contro il magistrato, nessun giudizio preliminare di ammissibilità essendo, invece, richiesto, in caso di proposizione dell'azione stessa (anche) contro lo Stato. Ne consegue che l'eventuale declaratoria di improponibilità della domanda nei confronti del magistrato (quale effetto del negativo giudizio preliminare di ammissibilità) ne impedisce l'esame nel merito nei confronti del magistrato, ma non si estende, "ipso facto", all'azione proposta contro lo Stato, senza che assuma, all'uopo, rilievo ostativo alla prosecuzione del giudizio nei soli confronti di quest'ultimo la circostanza che il danneggiato abbia, in concreto, richiesto la condanna in solido di entrambi i convenuti.
Nell'ipotesi di illeciti commessi da magistrati e rientranti, ratione temporis, nella disciplina di cui agli art. 55 e 56 cod. proc. civ. in quanto anteriori all'entrata in vigore della legge n. 117 del 1988, quando sia mancato o non sia più possibile l'accertamento in sede penale della responsabilità dei suddetti magistrati, il soggetto leso dai loro comportamenti (asseritamente rientranti tra quelli produttivi di danno ex art. 55 cod. proc.  civ.), che, a sua volta, sia sottoposto a procedimento penale nel corso del quale detti comportamenti siano stati compiuti, non può legalmente esercitare il diritto al risarcimento, per superiori esigenze di giustizia, fino a quando il suddetto procedimento penale sia in corso, ivi compresa la fase impugnatoria, e pertanto il termine quinquennale di prescrizione per l'azione risarcitoria deve ritenersi decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio penale a carico del soggetto leso da comportamenti tenuti dal magistrato nell'ambito di quel processo (Cassazione civile Sez. I 29 novembre  1999, n. 13308).

NOTA: Del pari, l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione rigetti l'istanza di assegnazione di un credito pignorato integra un atto del procedimento esecutivo contro il quale è esperibile l'opposizione agli atti esecutivi a norma dell'art. 617 c.p.c., mentre avverso la sentenza pronunziata all'esito di detta opposizione è proponibile la sentenza pronunziata all'esito di detta opposizione è proponibile ricorso per cassazione a norma degli art. 618, ultimo comma, c.p.c. 111 Cost., pertanto, è inammissibile l'azione proposta contro lo Stato, per ottenere il risarcimento dei danni che si assumono subita causa dell'indicata ordinanza , a norma dell'art. 2 1. n. 117 del 1988 sul risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, in quanto l'art. 4, 2° comma, legge citata, prevede che detta azione può essere esercitata tanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione e gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari sommari, e comunque, quando non sia più possibile la modifica o la revoca del provvedimento (Cass. 24 febbraio 1994, n. 1884).



PUBBLICAZIONI:

CICALA, La responsabilità civile del magistrato, Milano, IPSOA, 1989.

 



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